Malattia culturale o il lavoro del critico
Nel 1997 James Walcott, editorialista regolare di Vanity Fair, scrisse uno dei primi necrologi alla critica cinematografica, che secondo lui era diventata "una malattia culturale, un caso collettivo di depressione cronica e bassa autostima".

Come scrive Hoberman, il colpo principale alla reputazione del critico cinematografico in termini di impatto sul business è stato inferto dalla società post-industriale, per la quale, come sappiamo, l'informazione è più importante delle cose, i servizi sono più importanti dei prodotti, il packaging è più importante degli oggetti, la catena di marketing del cinema americano a grande budget è diventata un'intera industria. Hoberman ci ricorda che, per esempio, "Jurassic Park" ha fatto più soldi non sui biglietti, ma su giocattoli, giochi per computer, screensaver e magliette. Il peso industriale del critico come leva di marketing in questa catena è zero.
Ma il principale nemico del critico cinematografico professionista è diventato, come tutti sanno, il web.
È un linguaggio piuttosto duro, ma siamo inclini a sottoscriverlo. Cosa ha portato tutte queste persone, o dovrei dire, tutti noi, in uno stato così deplorevole?

Questo testo è stato stampato sul sito del Chicago Sun-Times e generosamente illustrato con foto di blogger cinefili, che Ebert ammira tanto quanto i suoi colleghi. Ma questo entusiasmo non è bastato a Ebert per firmare educatamente le foto di queste persone con nomi o soprannomi.